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Le città invisibili nelle Lezioni americane

Le scacchiere delle Città invisibili, più che regolate dalle combinatorie dello strutturalismo, sono suggestionate dalla teoria dell'informazione — già cooptata da Cibernetica e fantasmi — e dal rigore dei sistemi formali.



I. Calvino, Lezioni americane: Esattezza

Il mio libro in cui credo d’aver detto più cose resta Le città invisibili, perché ho potuto concentrare su un unico simbolo tutte le mie riflessioni, le mie esperienze, le mie congetture; e perché ho costruito una struttura sfaccettata in cui ogni breve testo sta vicino agli altri in una successione che non implica una consequenzialità o una gerarchia ma una rete entro la quale si possono tracciare molteplici percorsi e ricavare conclusioni plurime e ramificate.
Nelle Città invisibili ogni concetto e ogni valore si rivela duplice: anche l’esattezza. Kublai Khan a un certo momento impersona la tendenza razionalizzatrice, geometrizzante o algebrizzante dell’intelletto e riduce la conoscenza del suo impero alla combinatoria dei pezzi di scacchi d’una scacchiera: le città che Marco Polo gli descrive con grande abbondanza di particolari, egli le rappresenta con una o con un’altra disposizione di torri, alfieri, cavalli, re, regine, pedine, sui quadrati bianchi e neri.





copertina e-book tra il cristallo e la fiamma


copertina della Consistenza

Tra il cristallo e la fiamma


Copertina Eros al femminile


 

Una via di fuga

Esattezza vuol dire per me soprattutto tre cose:
  1. un disegno dell’opera ben definito e ben calcolato;
  2. l’evocazione d’immagini visuali nitide, incisive, memorabili; in italiano abbiamo un aggettivo che non esiste in inglese, “icastico”, dal greco eikastikos;
  3. un linguaggio il più preciso possibile come lessico e come resa delle sfumature del pensiero e dell’immaginazione».[1]

Se focalizziamo il percorso di Calvino all’interno dell’Esattezza scopriamo un’incongruenza, anzi una serie di incongruenze che lasciano sconcertati, fino a far gridare che la conferenza versasse ancora in un precario stato di provvisiorietà, altro che pronta nelle cartellette per la trasferta negli States, come sostiene Esther Calvino.

Dopo avere sciorinato in tre punti la sua idea di esattezza, Calvino salta di brutto il primo, rinvia il secondo alla Visibilità senza avvisare i naviganti e al terzo giunge dopo un’invettiva contro la sciatteria del linguaggio e del mondo e lunghe peregrinazioni attorno al cosmo, all’infinito e al nulla.

Chi fosse convinto della provvisorietà delle Lezioni americane ha di che pascersi.

Ma non suona paradossale che la conferenza sull’esattezza sia sta riposta nelle cartellette imperfetta? Calvino l’aveva ben sotto controllo ed era consapevole dello iato tra schema e trattazione, tanto da portarlo esplicitamente in superficie: «Ero partito per parlare dell’esattezza, non dell’infinito e del cosmo»,[2] dove è del tutto evidente l’intenzione retorica di omologare le sfasature.

C’è un’altra spiegazione per le scollature dell’Esattezza. L’Esattezza per sua natura — può sembrare un paradosso, ma le Lezioni americane in analogia ai sistemi viventi, fanno del paradosso la loro ragion d’essere[3] — non poteva essere perfetta; per questo doveva mostrarsi vistosamente incongrua, perché l’esattezza come gli altri Memos è in relazione ricorsiva con la leggerezza: è una ricerca continua, una quête. Le scollature dell’Esattezza sono un modo, il modo del Calvino cultore delle scacchiere di sfuggire all’aridità delle stesse, di sottrarsi all’ingessatura della forma, di aprirsi una via di fuga tra le rigorose contraintes.

Un passo della Molteplicità lo evidenzia clamorosamente pur mimetizzandolo dietro La vita istruzioni per l’uso di Perec: «Sono cento i capitoli? No, sono novantanove, questo libro ultracompiuto lascia intenzionalmente un piccolo spiraglio all’incompiutezza».[4] L’incompiutezza è la via della leggerezza.

Tuttavia il «disegno dell’opera ben definito e ben calcolato» solo in apparenza appartiene alla pars incongrua dell’Esattezza, perché «il disegno» in realtà è stato trattato.

Per scovarlo occorre muovere da alcune specificità delle Lezioni americane.

Nelle Lezioni americane si fa ampia pratica del dire e del fare, ossia del tradurre in pratica ciò che viene esposto. L’ha annotato per primo Cesare Garboli: «Si tratta infatti di lezioni che sono una mise en abîme: Calvino vi parla con esattezza dell’esattezza, con rapidità della rapidità, con molteplicità della molteplicità, ecc. ecc.».[5]

Un esempio eclatante: nella Rapidità la tecnica della digressione è fugacemente accennata, ma attraversa buona parte della conferenza come tecnica narrativa. La reiterazione delle versioni della novella dell’anello magico di Carlo Magno infatti è una mise en abîme della tecnica dell’indugio, tanto da poter sostenere — in realtà — che della rapidità Calvino parla non con rapidità, ma con il suo opposto, l’indugio, benchè anche questo svolga, paradossalmente, la stessa funzione della rapidità.[6]

Molteplici sono i sortilegi delle Lezioni americane. Un’altra perla sta nel dissimulare all’interno del testo campi di forze, che, come buchi neri, esercitano la loro attrazione pur senza rendersi visibili.[7]

Non c’è pagina, capoverso, frase, non c’è parola delle Lezioni che non si tiri dietro una pletora di allusioni, che non annidi riferimenti iridescenti, che non si apra sui mondi che concorrono a impreziosire il Cosmo delle Lezioni.[8] Ad esempio il nutrimento scientifico della Molteplicità è affidato a Prigogine, eppure il suo nome non è neppure fugacemente accennato.[9]

Intenzionalmente Calvino ha fatto del “disegno dell’opera ben definito e ben calcolato” un blank, perché la trattazione del modello formale doveva essere uno dei buchi neri del Cosmo delle Lezioni, che pur senza essere esplicitamente dichiarato, interviene a costituirne l’ultima sostanza.

Se si osserva l’andamento dell’Esattezza si coglie un progressivo innalzamento della tensione conoscitiva, una crescente apertura dei temi che alzano via via i toni fino a raggiungere l’acme sulle Città invisibili. Tutte le linee di forza della conferenza convergono verso questo libro, dove trovano una sintesi: la definizione in negativo dell’esattezza, la sua dimostrazione per assurdo, le coppie infinito-indefinito, esattezza-indeterminatezza, infinitamente grande-infinitamente piccolo, scelte formali-modello cosmologico, ordine-entropia, cristallo-fiamma convergono sulle Città invisibili.[10]

Nemmeno l’emblema di cristallo e fiamma, che pure si erge con l’icasticità di un Farinata dantesco a marcare l’esattezza, riesce a sottrarsi al campo di forze del «mio libro in cui credo d’aver detto più cose». Tutti i nuclei tematici della conferenza gravitano attorno al reticolo di relazioni svelate dalla lunga citazione delle Città invisibili, in cui «Marco Polo invita il Gran Khan a osservare meglio quello che gli sembra il nulla».

Nelle Città invisibili ogni concetto e ogni valore si rivela duplice: anche l’esattezza. Kublai Khan a un certo momento impersona la tendenza razionalizzatrice, geometrizzante o algebrizzante dell’intelletto e riduce la conoscenza del suo impero alla combinatoria dei pezzi di scacchi d’una scacchiera: le città che Marco Polo gli descrive con grande abbondanza di particolari, egli le rappresenta con una o con un’altra disposizione di torri, alfieri, cavalli, re, regine, pedine, sui quadrati bianchi e neri. La conclusione finale a cui lo porta questa operazione è che l’oggetto delle sue conquiste non è altro che il tassello di legno sul quale ciascun pezzo si posa: un emblema del nulla... Ma in quel momento avviene un colpo di scena: Marco Polo invita il Gran Khan a osservare meglio quello che gli sembra il nulla:

... Il Gran Khan cercava d’immedesimarsi nel gioco: ma adesso era il perché del gioco a sfuggirgli. Il fine d’ogni partita è una vincita o una perdita: ma di cosa? Qual era la vera posta? Allo scacco matto, sotto il piede del re sbalzato via dalla mano del vincitore, resta il nulla: un quadrato nero o bianco. A forza di scorporare le sue conquiste per ridurle all’essenza, Kublai era arrivato all’operazione estrema: la conquista definitiva, di cui i multiformi tesori dell’impero non erano che involucri illusori, si riduceva a un tassello di legno piallato.
Allora Marco Polo parlò: - La tua scacchiera, sire, è un intarsio di due legni: ebano e acero. Il tassello sul quale si fissa il tuo sguardo illuminato fu tagliato in uno strato del tronco che crebbe in un anno di siccità: vedi come si dispongono le fibre? Qui si scorge un nodo appena accennato: una gemma tentò di spuntare un giorno di primavera precoce, ma la brina della notte l’obbligò a desistere.
Il Gran Khan non s’era fin’allora reso conto che lo straniero sapesse esprimersi fluentemente nella sua lingua, ma non era questo a stupirlo. - Ecco un poro più grosso: forse è stato il nido d’una larva; non d’un tarlo, perché appena nato avrebbe continuato a scavare, ma d’un bruco che rosicchiò le foglie e fu la causa per cui l’albero fu scelto per essere abbattuto... Questo margine fu inciso dall’ebanista con la sgorbia perché aderisse al quadrato vicino, più sporgente...
La quantità di cose che si potevano leggere in un pezzetto di legno liscio e vuoto sommergeva Kublai; già Polo era venuto a parlare dei boschi d’ebano, delle zattere di tronchi che discendono i fiumi, degli approdi, delle donne alle finestre...
[11]

Forse mai Calvino era stato così determinato nell’esplicitare schegge di sé e di un suo libro, il «mio libro in cui credo d’aver detto più cose».

Perché alle Città invisibili affida tanta pregnanza?

Perché è il libro nel quale l’isomorfismo tra la vena trasfigurante delle scacchiere, delle astrazioni e la realtà passa dal quadro mitologico al quadro epistemologico, ossia dal nodo di idee nutrito dal temperamento alla consapevolezza della riflessione critica che la inquadra e giustifica in uno stile.[12]

Dal momento in cui ho scritto quella pagina mi è stato chiaro che la mia ricerca dell’esattezza si biforcava in due direzioni. Da una parte la riduzione degli avvenimenti contingenti a schemi astratti con cui si possano compiere operazioni e dimostrare teoremi; e dall’altra parte lo sforzo delle parole per render conto con la maggior precisione possibile dell’aspetto sensibile delle cose. In realtà sempre la mia scrittura si è trovata di fronte due strade divergenti che corrispondono a due diversi tipi di conoscenza: una che si muove nello spazio mentale d’una razionalità scorporata, dove si possono tracciare linee che congiungono punti, proiezioni, forme astratte, vettori di forze; l’altra che si muove in uno spazio gremito d’oggetti e cerca di creare un equivalente verbale di quello spazio riempiendo la pagina di parole, con uno sforzo di adeguamento minuzioso dello scritto al non scritto, alla totalità del dicibile e del non dicibile. Sono due diverse pulsioni verso l’esattezza che non arriveranno mai alla soddisfazione assoluta: l’una perché le lingue naturali dicono sempre qualcosa in più rispetto ai linguaggi formalizzati, comportano sempre una certa quantità di rumore che disturba l’essenzialità dell’informazione; l’altra perché nel rendere conto della densità e continuità del mondo che ci circonda il linguaggio si rivela lacunoso, frammentario, dice sempre qualcosa in meno rispetto alla totalità dell’esperibile.
Tra queste due strade io oscillo continuamente e quando sento d’aver esplorato al massimo le possibilità dell’una mi butto sull’altra e viceversa.[13]

Le due pulsioni, le due forme di conoscenza di Mathesis singularis e Mathesis universalis, la riduzione degli avvenimenti contingenti a schemi astratti e lo sforzo delle parole per render conto con la maggior precisione possibile dell’aspetto sensibile delle cose nella variegata molteplicità delle loro forme presenti e delle loro forme possibili, raggiungono nelle Città invisibili lo stato di grazia della sintesi.

Il possibile, la «vorticosa teoria dei mondi possibili, che tanti segni di sé offre nel corso delle Lezioni americane»[14] e in genere nella letteratura di Calvino (basti pensare a Se una notte d’inverno un viaggiatore), i mondi possibili che non sono stemperabili nei mondi fantastici — un mondo possibile è per esempio il sistema copernicano rispetto al sistema tolemaico, ossia lo sguardo azzerante che ridisegna la nozione di realtà — sono la ragione delle Città invisibili.

Escher, Scacchi

 





 

Un sistema formale

 

Kublai rappresenta le città raccontate da Marco con diverse disposizioni di «torri, alfieri, cavalli, re, regine, pedine». Ad ogni città corrisponde una particolare disposizione dei pezzi sulla scacchiera. Possiamo ritenere che i pezzi degli scacchi svolgano la funzione che in un sistema formale è propria dei simboli e che le diverse disposizioni dei pezzi degli scacchi svolgano la funzione delle stringhe.

Un certo numero di stringhe sono fornite dal sistema come assiomi. Sono le 55 città che Marco racconta a Kublai e che questi rappresenta con le figure degli scacchi. Ma, partendo da queste, sia Kublai che il lettore possono derivare infinite altre stringhe, che, se ottenute nel rispetto delle regole del gioco, ossia nel rispetto delle condizioni di formalità del sistema, sono formule ben formate e dunque come tali teoremi del sistema.

Partendo dagli assiomi e applicando le regole di inferenza posso arricchire dunque la mia collezione di teoremi, ossia di città, indipendentemente dal racconto di Polo. Il sistema si autoriproduce. Nuove città si aggiungono a nuove città, città invisibili si aggiungono alla lista delle città narrate...

Il meccanismo combinatorio è tanto seducente da far dimenticare il motivo che l’ha generato così da trasformarlo in pura suggestione combinatoria («smontata la città pezzo per pezzo, la ricostruiva in un altro modo, sostituendo ingredienti, spostandoli, invertendoli»), in puro esercizio formale come l’algebra, che, dimentico dell’aggancio con le città, si trasforma in emblema del nulla.

Ma a un certo punto ecco il ‘fulmine a ciel sereno’, il ‘colpo di scena’. Quando i simboli sembravano essere involucri vuoti, quando sembravano emblema del nulla tra le mani di un melanconico sovrano, ecco Marco Polo invitare il Gran Khan a osservare meglio quello che gli sembra il nulla, ciò che gli appare un freddo esercizio della mente. Ecco Marco Polo ricordare l’isomorfismo degli scacchi con le città.

Guarda, sire, la tua scacchiera è un intarsio di due legni...

«Già Polo era venuto a parlare dei boschi d’ebano, delle zattere di tronchi che discendono i fiumi, degli approdi, delle donne alle finestre...»

I teoremi ottenuti con il puro gioco combinatorio sono emblemi di città invisibili che la pratica formale ha reso visibili. I teoremi del sistema possono apparire involucri vuoti, possono sembrare un freddo esercizio combinatorio, ma se rapportati alle condizioni che li hanno generati, ossia il racconto delle città di Marco Polo, svelano il loro isomorfismo con la realtà. Ecco allora che gli involucri vuoti diventano città possibili, ecco allora che le fredde scacchiere diventano uno strumento per sondare l’ignoto. Le scacchiere virano in strumenti di interpretazione della realtà.

Del resto non sono spesso i puri sviluppi formali di una teoria ad aprire nuovi possibili scenari, a indicare la strada da seguire?

Il sistema formale delle Città invisibili si rivela non solo capace di rappresentare l’esistente, il visibile o il noto, ma anche di far prospezioni sull’inesistente, sull’invisibile, sull’ignoto, sulle città invisibili. È questo il senso remoto delle scacchiere di Calvino, è questo il senso remoto delle operazioni del Gran Khan. Sulle sue scacchiere avvengono le prospezioni del possibile, «del potenziale, dell’ipotetico, di ciò che non è né è stato né forse sarà ma che avrebbe potuto essere».

È la capacità di produrre teoremi il significato, un significato possibile della struttura delle Città? È questo il senso della rete di medaglioni di città «entro la quale si possono tracciare molteplici percorsi e ricavare conclusioni plurime e ramificate»? È possibile. Ne è prova il corsivo di testa dell’ottavo capitolo.

Ai piedi del trono del Gran Kan s’estendeva un pavimento di maiolica. Marco Polo, informatore muto, vi sciorinava il campionario delle mercanzie riportate dai suoi viaggi ai confini dell’impero: un elmo, una conchiglia, una noce di cocco, un ventaglio. Disponendo in un certo ordine gli oggetti sulle piastrelle bianche e nere e via via spostandole con mosse studiate, l’ambasciatore cercava di rappresentare agli occhi del monarca le vicissitudini del suo viaggio, lo stato dell’impero, le prerogative dei remoti capoluoghi.
Kublai era un attento giocatore di scacchi; seguendo i gesti di Marco osservava che certi pezzi implicavano o escludevano la vicinanza d’altri pezzi e si spostavano secondo certe linee. Trascurando la varietà di forme degli oggetti, ne definiva il modo di disporsi gli uni rispetto agli altri sul pavimento di maiolica. Pensò: «Se ogni città è come una partita a scacchi, il giorno in cui arriverò a conoscerne le regole possiederò finalmente il mio impero, anche se mai riuscirò a conoscere tutte le città che contiene».
Ormai Kublai Kan non aveva più bisogno di mandare Marco Polo in spedizioni lontane: lo tratteneva a giocare interminabili partite a scacchi. La conoscenza dell’impero era nascosta nel disegno tracciato dai salti spigolosi del cavallo, dai varchi diagonali che s’aprono alle incursioni dell’alfiere, dal passo strascicato e guardingo del re e dell’umile pedone, dalle alternative inesorabili d’ogni partita». (I. Calvino, Le città invisibili, Romanzi e racconti, II, Milano 1992, p. 461)

Le scacchiere delle Città sono una formalizzazione della realtà, «un processo d’astrazione o, meglio, un’estrazione di concretezza da operazioni astratte, come il riconoscere segni distintivi, frantumare tutto ciò che vediamo in elementi minimi, ricomporli in segmenti significativi, scoprire intorno a noi regolarità, differenze, ricorrenze, singolarità, sostituzioni, ridondanze»... e ricomporle in un quadro possibile.[15]

Il «pavimento di maiolica» è la parte emersa di un processo che attraversa imperiosamente le Città invisibili sin dalle prime mosse, in un crescendo continuo, benché in prima istanza al lettore ne possano sfuggire le tonalità. Già dal secondo corsivo trasuda l’isomorfismo tra gli oggetti e i pezzi degli scacchi:

Nuovo arrivato e affatto ignaro delle lingue del Levante, Marco Polo non poteva esprimersi altrimenti che con gesti, salti, grida di meraviglia e d’orrore, latrati o chiurli d’animali, o con oggetti che andava estraendo dalle sue bisacce: piume di struzzo, cerbottane, quarzi, e disponendo davanti a sé come pezzi degli scacchi».[16]

E il successivo passo, dichiarato poco più sotto, congiuntamente alla caduta del modello oggettuale, è la trasfigurazione dei pezzi degli scacchi in simboli, in «fantasmi della mente» o, in altri termini, diventa manifesto l’isomorfismo tra le cose, gli oggetti — che alimentano le serie e le enumerazioni indifferentemente ripartite tra i medaglioni delle città e i corsivi — e la loro rappresentazione mentale, la loro proiezione nei simboli, in «fantasmi della mente».

Eppure ogni notizia su di un luogo richiamava alla mente dell’imperatore quel primo gesto o oggetto con cui il luogo era stato designato da Marco. Il nuovo dato riceveva un senso da quell’emblema e insieme aggiungeva all’emblema un nuovo senso. Forse l’impero, pensò Kublai, non è altro che uno zodiaco di fantasmi della mente.
— Il giorno in cui conoscerò tutti gli emblemi, — chiese a Marco, riuscirò a possedere il mio impero, finalmente?
E il veneziano: — Sire, non lo credere: quel giorno sarai tu stesso emblema tra gli emblemi».
[17]

Sorvoliamo pure sul processo parificante l’io alle cose (anche l’io, la coscienza del sé e in ultima istanza il libero arbitrio,[18] come l’impero di Kublai, è una combinatoria di simboli), affidato alla risposta del veneziano, che ci traslerebbe nella giurisdizione della lezione non scritta, la Consistency.
La possibilità del procedere indipendentemente dalle cose, dalle città, (sul cui simbolo, un simbolo ancor più complesso dello stesso emblema di cristallo e fiamma, si condensa quell’estratto di natura e cultura che dà forma alla civiltà) trabocca già dal processo combinatorio («l’impero si rifletteva in un deserto di dati labili e intercambiabili come grani di sabbia»[19]) emblematizzato sì dalla scacchiera sul pavimento di maiolica, ma la cui essenza è riposta, è bene ricordarlo, non tanto o soltanto nella struttura aperta e modulare del libro, ma nella scomposizione — affidata ai medaglioni delle città — del «groviglio delle esistenze umane». È nella scomposizione della civiltà nelle componenti di natura (le invarianti, le costanti: «Credo che i nostri meccanismi mentali elementari si ripetono dal Paleolitico dei nostri padri cacciatori raccoglitori attraverso tutte le culture della storia umana»[20] e cultura (storia) fino a isolare elementi semplici come quelli del DNA, che si gioca il senso delle Città invisibili.

Kublai Kan s’era accorto che le città di Marco Polo s’assomigliavano, come se il passaggio dall’una all’altra non implicasse un viaggio ma uno scambio d’elementi. Adesso, da ogni città che Marco gli descriveva, la mente del Gran Kan partiva per suo conto, e smontata la città pezzo per pezzo, la ricostruiva in un altro modo, sostituendo ingredienti, spostandoli, invertendoli.
Marco intanto continuava a riferire del suo viaggio, ma l’imperatore non lo stava più a sentire, lo interrompeva:

— D’ora in avanti sarò io a descrivere le città e tu verificherai se esistono e se sono come io le ho pensate».[21]

È per la capacità di scomporre il pulviscolo delle cose che il simbolo della città «mi ha dato le maggiori possibilità di esprimere la tensione tra razionalità geometrica e groviglio delle esistenze umane», ancor più dello stesso emblema di cristallo e fiamma, che pure occupa, ma è solo un’apparenza, la postazione più elevata dell’Esattezza, un’apparenza, perché di fatto il ruolo della sintesi è affidato, come abbiamo avuto modo di constatare,[22] alle Città invisibili.

I giochi della funzione esplorativa, proiettiva del sistema formale sono già fatti e siamo solo al corsivo di testa del terzo capitolo.






 

Il disegno dell'opera

 

Segno tangibile della centralità delle Città invisibili nelle Lezioni americane, sia anche il loro disporsi come spartiacque tra la trattazione del modello cosmologico di riferimento — ossia l’argomento che sornionamente è fatto passare per deviazione, clinamen, rumore — e le questioni strettamente attinenti il concetto di precisione del linguaggio, che dovevano costituire il tema della conferenza.

Schema delle Città Invisibili

Se si considera che Le città invisibili sono il libro della svolta, il libro dove per la prima volta il disegno strutturale entra come componente determinante non meno dei contenuti e che questo libro fa da piedistallo all’Esattezza, non era necessario dilungarsi nella definizione del «disegno dell’opera ben definito e ben calcolato». Nell’economia delle Lezioni americane al cospetto di tutta la produzione calviniana bastava porre un’indicazione, una riga di comando, un rinvio a un’opera dall’orologeria tanto perfetta da svolgere virtualmente il tema.

Il primo punto del concetto di esattezza è trattato dalle Città invisibili. Le Città invisibili aprono la subroutine «un disegno dell’opera ben definito e ben calcolato», ossia il «modello formale».

Certo, la struttura del meccanismo combinatorio delle Città invisibili è diventata di dominio pubblico dopo che Barenghi ha rovistato tra le carte di Calvino, ma non si può dire che la precisione del meccanismo non fosse avvertita sin da subito, né che non ci sia stato chi, come Claudio Milanini, si è avvicinato in modo sorprendente al raffinato congegno. In ogni caso Calvino ci fa capire che il libro in cui ha detto più cose ha ancora cose da dire.[23]






 

Cristallo e fiamma

 

Dunque è possibile una lettura delle Città invisibili come sistema formale, ma anche se si rifiutasse un affondo di questo genere, è innegabile nelle Città invisibili il leitmotiv dell’esattezza del linguaggio e come tali esse vengono cooptate dalle Lezioni americane.

La necessità di un linguaggio scorporato da ogni resistenza materiale, quella componente mallarmeana di un linguaggio assoluto, sciolto dal babelico vincolo del comunicare immediato, ma procedente in virtù di una sua necessità interna come nel ragionamento matematico, è fortemente sentito dai corsivi di Marco Polo e Kublai Khan. Dall’intrico babelico di idiomi dei primi dialoghi, dal rumore delle pantomime di Marco che non si sa se sono per l’ordine o per il disordine, per la vita o per la morte si giunge alla precisione del linguaggio astratto, alla eliminazione d’ogni rumore dei linguaggi formali e del ragionamento deduttivo.

Il ragionamento deduttivo è una progressione serpeggiante nelle Lezioni americane e forse anche per questo vi sono richiamate le Città.

Il ragionamento deduttivo è l’essenza dell’esattezza. Calvino ne aveva già dato prova superba con i racconti di Ti con zero. È il ragionamento matematico, il ragionamento dei linguaggi formali, che applica teoremi e assiomi, che procede quasi senza guardare ai contenuti ma alla concatenazione delle cose. È la ricerca «d’un’espressione necessaria, unica, densa, concisa, memorabile» prodotta dalle cose in sé.

È il «discorrere» di Galileo, «la rapidità, l’agilità» del suo ragionamento, l’economia degli argomenti, ma anche la fantasia dei suoi esperimenti mentali, dei Gedanken Experimenten.

È l’ideale estetico che Valéry vede nel linguaggio di Mallarmé dove «la struttura delle espressioni risulta più evidente e più interessante del loro significato o dei loro valori». È lo stesso ideale d’esattezza nell’immaginazione e nel linguaggio che Calvino nella Molteplicità vedrà realizzato meglio di tutto nelle opere di Borges.

Non a caso, come rileva Asor Rosa, gli ideali di Calvino non sono estetici ma categorie «fisiche». Perché Calvino vuole sottoporre alla verifica del ragionamento deduttivo i valori della letteratura, di solito affidati a categorie che affondano le radici nei campi extrascientifici delle consuetudini, delle tradizioni, degli ideali estetici, delle ideologie.

Calvino vuole un ragionamento e un linguaggio ripuliti il più possibile da ambiguità e da rumori in cui le parole, pur non perdendo il loro mordente poetico, siano dense di significato. È un linguaggio quello dell’esattezza che esprime il suo modello di perfezione nel cristallo.

Ma anche la precisione, il rigore, l’esattezza del ragionamento deduttivo — come «ogni concetto e ogni valore» nelle Città invisibili — si rivela duplice, si dimostra ambivalente.

La ricerca dell’esattezza, l’anelito del rigore formale non si esaurisce nel puro esercizio formale. L’astrazione è la condizione per aderire alla molteplice varietà delle cose, non è fine a se stessa.

La perfezione del cristallo è la dorsale su cui prende forma la molteplicità delle cose. Sulle facce del cristallo si riflette la varietà delle esistenze. L’universalis è compensato dal singularis, il cristallo dalla fiamma. Cristallo e fiamma sono figura e sfondo di un disegno ricorsivo.

«Cristallo e fiamma, due forme di bellezza perfetta da cui lo sguardo non sa staccarsi, due modi di crescita nel tempo, di spesa della materia circostante, due simboli morali, due assoluti, due categorie per classificare fatti e idee e stili e sentimenti».

Cristallo e fiamma interpretano le due diverse pulsioni conoscitive di Calvino ed assieme compongono l’emblema della città che le riassume giustapponendole come negli emblemi rinascimentali della Rapidità.[24]

Il mio libro in cui credo d’aver detto più cose resta Le città invisibili, perché ho potuto concentrare su un unico simbolo tutte le mie riflessioni, le mie esperienze, le mie congetture; e perché ho costruito una struttura sfaccettata in cui ogni breve testo sta vicino agli altri in una successione che non implica una consequenzialità o una gerarchia ma una rete entro la quale si possono tracciare molteplici percorsi e ricavare conclusioni plurime e ramificate.[25]




 

La colonna sonora

 

Chi crede che Calvino sia giunto alle scacchiere delle Città invisibili suggestionato dall’«attitudine ordinatrice dello strutturalismo»[26] d’oltralpe ha senz’altro ragione. Ma se credesse di ridurre allo strutturalismo la sostanza combinatoria delle Città invisibili sarebbe in difetto, per lo meno per due motivi. Se Calvino si fa gonfiare le vele da una moda non è per stare a galla ma per sciogliere un precedente nodo d’idee: «Uno continua il suo discorso; sta attento a quel che succede, questo sì, ma cerca di rimanere se stesso».[27] Secondariamente perché il tanto strombazzato approccio alle tecniche strutturalistiche è contestuale a una convergenza di interessi rispetto ai quali lo strutturalismo occupa una parte neanche di rilievo. È Cibernetica e fantasmi a svelarlo.

La tesi della conferenza, come lascia intuire il sottotitolo (Appunti sulla narrativa come processo combinatorio), è la letteratura come processo combinatorio e per sostenerla Calvino lancia la stessa procedura che sarà delle Lezioni americane, ossia parte dalla tradizione letteraria più antica per chiedersi se anche nelle forme più complesse della cultura un numero illimitato di trasformazioni sia riducibile a un numero finito di strutture, come nel mito e nella fiaba. E si appoggia alle analisi dei formalisti russi e di Barthes e agli scrittori del gruppo «Tel Quel» per concludere che la letteratura è riconducibile «a combinazioni tra un certo numero d’operazioni logico-linguistiche o meglio sintattico-retoriche, tali da poter essere schematizzate in formule tanto più generali quanto meno complesse».

L’interesse di Calvino è l’operazione essenzialmente matematica sottesa al processo combinatorio della letteratura. Se guarda allo strutturalismo è perché questo applica alla letteratura quel procedimento con risultati convincenti, ma lo strutturalismo è uno strumento come altri, tant’è vero che Calvino apre alla teoria dell’informazione, come teoria inglobante.

Non solo la letteratura, ma anche il pensiero, anzi, gli stessi processi biologici sono regolati dallo stesso procedimento matematico evidenziato dalla teoria dell’informazione, che Calvino fa precedere dal contesto epistemologico che l’ha maturata.

Nel modo in cui la cultura d’oggi vede il mondo, c’è una tendenza che affiora contemporaneamente da varie parti: il mondo nei suoi vari aspetti viene visto sempre più come discreto e non come continuo. Impiego il termine «discreto» nel senso che ha in matematica: quantità «discreta» cioè che si compone di parti separate. (I. Calvino, Cibernetica e fantasmi, in ID, Saggi, p. 209)

È lo scenario epistemologico della fisica quantistica, che descrive una realtà fatta di vuoti intervallati a grandi distanze da frammenti di pieno, di una realtà non continua come una linea retta ma spezzata in tante brevi linee intervallate da lunghi tratti bianchi, rischiarata da una luce fatta di brevi intervalli d’energia separati da interminabili vuoti di buio e regolata non dal meccanismo rigorosamente scandito della fisica di Galileo e di Newton ma affidata alla aleatorietà di eventi possibili ma non necessari.

Su questo sfondo di probabilità si muove il processo combinatorio di Calvino che è lo sfondo stesso dell’attività cerebrale.

Il pensiero, che fino a ieri ci appariva come qualcosa di fluido, evocava in noi immagini lineari come un fiume che scorre o un filo che si sdipana, oppure immagini gassose, come una specie di nuvola, tant’è vero che veniva spesso chiamato «lo spirito», - oggi tendiamo a vederlo come una serie di stati discontinui, di combinazioni di impulsi su un numero finito (un numero enorme ma finito) di organi sensori e di controllo. I cervelli elettronici, se sono ancora lungi dal produrre tutte le funzioni d’un cervello umano, sono però già in grado di fornirci un modello teorico convincente per i processi più complessi della nostra memoria, delle nostre associazioni mentali, della nostra immaginazione, della nostra coscienza. Shannon, Weiner [sic], von Neumann, Turing, hanno cambiato radicalmente l’immagine dei nostri processi mentali. Al posto di quella nuvola cangiante che portavamo nella testa fino a ieri e del cui addensarsi o disperdersi cercavamo di renderci conto descrivendo impalpabili stati psicologici, umbratili paesaggi dell’anima, - al posto di tutto questo oggi sentiamo il velocissimo passaggio di segnali sugli intricati circuiti che collegano i relé, i diodi, i transistor di cui la nostra calotta cranica è stipata. (I. Calvino, Cibernetica e fantasmi, in ID, Saggi, pp. 209-210)

C’è confusione ossia continuità tra materia sensazioni emozioni sentimenti pensiero: una serie di impulsi elettrochimici, partiti da una massa di neuroni sufficientemente grande, attiva un livello superiore di neuroni che, se stimolati in una massa sufficiente grande, interagendo con i precedenti, attivano a loro volta un livello più alto e così su su fino ai simboli e al pensiero (e ai paradossi).

Nel cervello come su una scacchiera «in cui sono messi in gioco centinaia di miliardi di pezzi» sono possibili tante mosse che «neppure in una vita che durasse quanto l’universo s’arriverebbe» a giocarle tutte.

Su questo sfondo, su uno sfondo digitale, si muove il processo combinatorio di Calvino non su quello dello strutturalismo. Certo lo strutturalismo gioca la sua parte, ma la sua parte la gioca anche Queneau che muove da premesse matematiche e la sua parte la gioca Santillana con l’immagine dei dadi e della scacchiera degli antichi e il tutto viene posto nel quadro epistemologico della seconda rivoluzione scientifica aprendosi agli sviluppi incontenibili della teoria dell’informazione.

La scacchiera delle Città invisibili è già qui in Cibernetica e fantasmi, nel calcolo probabilistico della teoria dell’informazione, agganciato al mito svelato da Santillana. Quando dalle Lezioni americane Calvino invita a guardare alle Città invisibili, invita a guardare anche al quadro mitologico che l’ha prodotto. In questo non c’è solo lo strutturalismo ma c’è la teoria dell’informazione che apre verso la continuità con la materia e da questa alle varie forme viventi fino all’uomo e alla storia. «La sterminata varietà delle forme vitali si può ridurre alla combinazione di certe quantità finite. Anche qui è la teoria dell’informazione che impone i suoi modelli».

Fermarsi nel quadro mitologico delle Città invisibili alle sole scacchiere è per lo meno come cancellare la colonna sonora di un film. Nelle Città invisibili non c’è solo la trasparenza del cristallo, c’è anche il rumore della fiamma. E in Cibernetica e fantasmi c’erano già cristallo e fiamma, come c’erano già le complicanze dell’infinitesimo e dei paradossi.

Il processo combinatorio di Calvino si muove sullo sfondo della logica, della matematica, delle scienze e con questo sfondo approda ai — ma sarebbe meglio dire — s’incontra coi processi combinatori di strutturalismo e semiotica. Anche per questo Calvino ha potuto conseguire risultati originali, come dimostra l’unicità del Castello dei destini incrociati, la sua opera più vicina alle suggestioni strutturalistiche d’oltralpe.[28]






 

I pezzi tutti d'oro

 

Più sopra siamo inciampati nel nome di Giorgio de Santillana, la cui influenza è stata tale su Calvino da dedicargli l’Esattezza. È una procedura insolita quella di ritardare l’inizio di una Lezione, tanto più se le more sono imputabili a qualcosa che ha a che fare — più che con l’essenzialità dell’esattezza — con ciò verso cui la conferenza affonda i suoi spilloni ossia la perdita di forma del linguaggio e della vita.[29] Che cosa c’è di più scontato di una dedica?

Ma non è questa l’unica atipicità dell’inizio dell’Esattezza. Mentre nelle occasioni in cui Calvino scuce la borsa del suo vissuto resta vago nella determinazione temporale («Quando ho iniziato la mia attività»; «Se in un’epoca della mia attività letteraria»[30], qui non solo è preciso ma si avventura a cuor leggero nella ridondanza.[31]

Per ben due volte insiste nell’indicare date precise: il 1963, anno di Fato antico e fato moderno, la «conferenza [di Santillana] che […] ebbe una profonda influenza su di me» e il 1960, quando Santillana gli fece da guida al tempo della sua prima visita negli Stati Uniti.

A che cosa imputare questa insolita procedura? È che il saluto a Santillana è molto più di una dedica qual può apparire in superficie: è uno snodo imprescindibile del quadro mitologico delle Lezioni americane.

Infatti la simmetria Santillana-Maat («In memoria della sua amicizia, apro questa conferenza col nome di Maat, dea della bilancia»)[32] che avvia la conferenza ha la funzione di stabilire una triangolazione al cui vertice Calvino pone se stesso, dato che «la Bilancia è il mio segno zodiacale».[33] È palese la chiamata personale, ridondata dalla dichiarazione della «profonda influenza esercitata su di me» dal pensiero di Santillana.

Sul portale dell’Esattezza Calvino con Santillana-Maat scolpisce gli estremi epistemologici della conferenza. Dimostra che la sua idea di Esattezza si mouve nell’ottica di una continuità con il passato, quella stessa già dichiarata sin dalla Leggerezza con il mito di Perseo.

Nello stesso modo in cui l’idea di leggerezza è già disegnata nella rappresentazione mitica, il concetto di esattezza che si accinge a definire, non è diverso dal concetto di esattezza già praticato dagli antichi nel nome di Maat, come svelato da Santillana. Il pensiero di Santillana viene cooptato tout court nell’universo delle Lezioni americane, per diventare la chiave di lettura del mito e dell’esattezza secondo Calvino. L’affettuoso ricordo dell’amico scomparso diventa codice di lettura delle Lezioni americane.

Come «gli oscuri testi delle Piramidi [...] sono istruzioni di rotta per l’anima del re, morto in tali e tali situazioni astrali, perché possa trovare la sua via verso il luogo del cielo che gli sarà assegnato come eterno soggiorno», la maestosa incisione del nome di Maat sul portale dell’Esattezza suggerisce la mappa di quella saldatura, trasversale alle Lezioni americane, tra mytos e logos, tra passato e presente e tra presente e la sua proiezione, che incontra nell’approccio esistenziale della Leggerezza, nelle operazioni sul tempo della Rapidità e nelle prospezioni razionali dell’Esattezza epifanie via via diverse.[34]

Se le cose stanno così e se è vero che la conferenza percorre un climax che si scarica nelle Città invisibili, vien da sé congiungere i due estremi fino a confonderli, con la conseguenza di parificare la scacchiera-emblema del sistema formale Città invisibili con i «pezzi tutti d’oro del gioco di scacchi» che nei miti svelati da Santillana rappresentano le trasformazioni dell’universo.

Le scacchiere delle Città invisibili, se sono assimilabili al gioco combinatorio di marca francese, hanno tuttavia il loro ascendente nei lontani miti raccolti dal Mulino di Amleto, scaturito da Fato antico e fato moderno, la conferenza del 1963 che ha esercitato «profonda influenza» «su di me».

Sta nascosta qui la ragione della ridondanza di date.

Con la dichiarazione puntuale delle coordinate temporali Calvino concentra l’attenzione su un aspetto poco noto e poco riconosciuto delle sue scacchiere ossia la presenza del caso definita con il fato di Santillana e lascia intuire che il percorso delle Città invisibili, il libro in cui il suo quadro mitologico generale (di cui è sostanza il fato) esce meglio compiuto, data da quegli anni.

Non a caso Santillana e Le città invisibili aprono e chiudono gli estremi della trattazione del quadro mitologico dell’Esattezza, come a marcare ulteriormente questo rapporto.

Le scacchiere di Calvino non derivano soltanto dalla moda combinatoria dello strutturalismo. Calvino ha sempre piegato a suo modo i vari imperativi o le varie tendenze. Sulle sue scacchiere confluiscono il fato e il caso, la saldatura tra passato e presente.

Sulle sue scacchiere confluisce un atteggiamento mentale antico quanto l’uomo che è quello di conoscere e ordinare i segmenti della realtà, di attribuire loro un senso, di dare un senso al disordine e di riconoscere il limite delle possibilità umane.[35]

Per questo le Città invisibili sono il «mio libro in cui credo d’aver detto più cose».

 





Note

 

[1] I. Calvino, Lezioni americane, Garzanti, p. 57.
[2] I. Calvino, Lezioni americane, Garzanti,, p. 67.
[3] Cfr. A. Piacentini, Tra il cristallo e la fiamma, alla voce “Paradosso”.
[4] I. Calvino, Lezioni americane, cit., p. 118.
[5] C. Garboli, Plutone nella rete, «L’Indice», V, 10, dicembre 1988, p. 13.
[6] Cfr. A. Piacentini, Tra il cristallo e la fiamma, pp. 132 e ss.
[7] Cfr. A. Piacentini, Tra il cristallo e la fiamma, alla voce “Buchi neri”.
[8] Cfr. A. Piacentini, Tra il cristallo e la fiamma, pp. 92-95.
[9]  Cfr. A. Piacentini, Tra il cristallo e la fiamma, pp. 502 e ss.
[10] A. Piacentini, Tra il cristallo e la fiamma, p. 212.
[11] I. Calvino, Lezioni americane, cit. p. 71-72.

[12] Cfr. A. Piacentini, Tra il cristallo e la fiamma, p. 326.

[13] I. Calvino, Lezioni americane, cit.,  p. 72.

[14] M. Corti, in A. Piacentini, Tra il cristallo e la fiamma, Prefazione, p. 17.

[15] A. Piacentini, Tra il cristallo e la fiamma, p. 296.

[16] I. Calvino, Le città invisibili, Romanzi e racconti, II, Milano 1992, p. 373. 

[17] I. Calvino, Le città invisibili, Romanzi e racconti, II, Milano 1992, p. 374.

[18] Cfr. A. Piacentini, Tra il cristallo e la fiamma alla voce “ libero arbitrio”.

[19] I. Calvino, Le città invisibili, cit., p. 374.

[20] I. Calvino, Lezioni americane, cit., p. 74.

[21] I. Calvino, Le città invisibili, cit., p. 391.

[22] Cfr. A. Piacentini, Tra il cristallo e la fiamma, pp. 286 e ss.

[23] A. Piacentini, Tra il cristallo e la fiamma, cit., p. 212.

[24] A. Piacentini, Tra il cristallo e la fiamma, cit., p. 294-96.

[25] I. Calvino, Lezioni americane, cit., p. 70.

[26] I. Calvino, Saggi (1945-85), a cura di M. Barenghi, 2 voll., Milano 1995, vol. I, p. 183.

[27] Ivi, p. 2768.

[28] A. Piacentini, Tra il cristallo e la fiamma, cit., p. 322-23.

[29] Cfr. A. Piacentini, Tra il cristallo e la fiamma, cit., p. 189.

[30] I. Calvino, Lezioni americane, cit., p. 5 e p. 37.

[31] Cfr. A. Piacentini, Tra il cristallo e la fiamma, p. 207.

[32] I. Calvino, Lezioni americane, cit., p. 57.

[33] I. Calvino, Lezioni americane, cit., p. 57.

[34] Cfr. A. Piacentini, Tra il cristallo e la fiamma, p. 193.

[35] Cfr. A. Piacentini, Tra il cristallo e la fiamma, cit., p. 207.

 





Voci correlate

 

Strutturalismo

La presente pagina fa parte di un ipertesto sulle Lezioni americane di I. Calvino e sulle Metamorfosi di Apuleio.


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