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Erich Auerbach

Erich Auerbach (1892-1957) filologo e critico tedesco, studioso di filologia romanza.

Oltre a Mimesis. Il realismo nella letteratura occidentale (1949), che propone una serie di saggi che documentano l'evoluzione del «realismo» nella tradizione letteraria occidentale, le opere più note di Auerbach sono Studi su Dante (1924-1940), che raggruppa i risultati di appassionate ricerche sul mondo dantesco, e Lingua letteraria e pubblico nella tarda antichità latina e nel Medioevo (1958), un excursus storico sul «sermo humilis» del realismo cristiano.


I. Calvino, Lezioni americane: Visibilità

L’idea che il Dio di Mosè non tollerasse d’essere rappresentato in immagine sembra non sfiorare mai Ignacio de Loyola. Al contrario, si direbbe che egli rivendichi per ogni cristiano la grandiosa dote visionaria di Dante e di Michelangelo - senza neppure il freno che Dante si sente in dovere di mettere alla propria immaginazione figurale di fronte alle supreme visioni celesti del Paradiso.





Figurale

Secondo la concezione figurale i fenomeni terreni sono figure che trovano compimento solo nell'aldilà, atto realizzato del piano divino. L'apparire di un uomo sulla terra è solo la figura. La vera realtà della persona, il suo compimento si verificherà nell'aldilà, dove troverà castigo, espiazione o premio.





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copertina della Consistenza
Tra il cristallo e la fiamma

Copertina Eros al femminile

 

1 Mimesis. Il realismo nella letteratura occidentale


Attraverso il sistema di analisi per campioni, Auerbach percorre in Mimesis la storia del realismo nella letteratura occidentale, iniziando con un classicoCopertina dell'edizione tedesca di Mimesis come l'Odissea per concludere con La recherche di Proust, soffermandosi su un'analisi stilistica di brani di autori più rappresentativi di ogni tendenza.

Esce evidenziato il legame tra lo stile dell'opera letteraria, la visione della realtà dell'autore e la natura del pubblico cui l'opera è rivolta.

Per esempio la presentazione delle cose in forma finita ed esatta, in tutte le loro parti e nelle loro relazioni di spazio e di tempo, compresi gli aspetti interiori dell'animo umano, servono ad Omero per costruire un mondo “inventato” che descrive l'incanto dei sensi; nel racconto biblico la descrizione realistica serve invece ad aumentare la tensione drammatica e, spezzata dal leggendario e dal profetico, pretende di fornire verità storica alle favole: Omero vuol farci dimenticare la realtà, il racconto biblico vuol sottometterla, vuole che inseriamo la nostra vita in quel suo mondo.






2 La concezione 'figurale'

Concetto introdotto da E. Auerbach per spiegare la modalità di lettura in chiave simbolica dell'Antico Testamento e più in generale della vita terrena (la storia), già presente nella tradizione giudaica, adottata dai primi cristiani e ampiamente diffusa nel Medioevo.

Secondo la concezione figurale il fatto sensibile (il fatto storico) è solo un simbolo (figura) del piano salvifico divino, il cui compimento avviene nell'aldilà. L'apparire di un uomo sulla terra è solo la figura. La vera realtà della persona, il suo compimento si verificherà nell'aldilà, dove troverà castigo, espiazione o premio.
Legata alla concezione figurale è la particolare dimensione spazio-temporale del Medioevo.

Un esempio:

Tutto il contenuto delle Sacre Scritture venne a far parte d'un insieme di interpretazioni che assai spesso portano le narrazioni lontanissimo dal loro fondamento sensibile, venendo l'uditore o il lettore costretto a distogliere la sua attenzione dal fatto sensibile per volgerla alla sua significazione. Ne nacque cosí il pericolo che l'evidenza sensibile si irrigidisse e si spegnesse sotto la spessa rete delle significazioni. E qui per molti un unico esempio: è un fatto sensibile che Dio abbia creato dalla costola d'Adamo dormiente la prima donna, Eva; altrettanto, che un soldato abbia piantato la sua lancia nel fianco di Gesù morto in croce, sicché ne uscirono sangue e acqua. Ma se questi due fatti, interpretandoli, si mettono in relazione l'uno con l'altro, si apprende che il sonno d'Adamo è una «figura» del sonno mortale di Cristo, e che dalla ferita al fianco d'Adamo è nata la prima madre degli uomini secondo la carne, Eva, come dalla ferita di Cristo è nata la madre dei viventi secondo lo spirito, la Chiesa (sangue e acqua sono simboli del sacramento), e cosí l'avvenimento sensibile dilegua sopraffatto dal significato figurale. Quanto di esso accolgono ascoltatori o lettori, e perfino coloro che lo guardano nelle arti figurative, è cosa debole come impressione sensibile e tutto il loro interesse è volto alla significazione» (E. Auerbach, Mimesis. Il realismo nella letteratura occidentale, p. 53-54).





3 Il divenire immanente nell’essere senza tempo

Si pensi alla precedente arte figurale, ai misteri, all’arte plastica religiosa, che non si arrischiarono affatto, o soltanto con estrema delicatezza, oltre i soggetti offerti immediatamente dalla storia biblica e cominciarono a imitare la realtà e l’individuo solo per vivificare le storie bibliche; e si consideri poi Dante, il quale nella cornice figurale dà vita a tutta la storia del mondo e, dentro a questa, a quella d’ogni uomo nel quale s’imbatte. Questa è sin dal principio l’esigenza dell’interpretazione giudaico-cristiana della storia, ed essa pretende a un valore universale; ma la vitalità immessa in quell’interpretazione è così grande che le sue manifestazioni si conquistano un posto nell’animo dell’ascoltatore anche indipendentemente da ogni interpretazione. Chiunque oda il grido di Cavalcante: «non fiere gli occhi suoi il dolce lome?» o chiunque legga il verso dolce e incantevolmente femmineo pronunciato da Pia de’ Tolomei («e riposato della lunga via», Purg., V, 131), con cui prega Dante di rammentarla sulla terra, sente in sè un impulso che si volge agli uomini piuttosto che all’ordine divino dove essi hanno trovato il loro compimento; e ci si rende conto della loro condizione eterna nell’ordine divino solo in quanto essa è un teatro che con la sua irrevocabilità aumenta ancora l’effetto di questa umanità conservata in tutta la sua forza. Si perviene a un’esperienza immediata della vita, che sopraffà tutto il resto, a una rappresentazione dell’uomo tanto varia e ampia quanto profonda, a un’illuminazione dei suoi impulsi e delle sue passioni che porta a una  partecipazione calorosa e senza riserve e perfino all’ammirazione della loro molteplicità e grandezza. E in questa immediata e ammirata partecipazione alla vita dell’uomo, l’indistruttibilità dell’uomo storico e individuale, stabilita dentro l’ordine divino, si dirige contro quello stesso ordine divino, lo fa suo servo e l’eclissa. L’immagine dell’uomo si pone davanti all’immagine di Dio. L’opera di Dante ha realizzato l’essenza figurale-cristiana dell’uomo e nel realizzarla l’ha distrutta. La potente cornice s’infranse per la strapotenza delle immagini che essa incluse. I rozzi disordini, a cui condusse il buffonesco realismo dei misteri dell’alto Medioevo, sono, per l’esistenza d’una concezione figurale-cristiana dell’accadere, di gran lunga meno pericolosi dell’alto stile d’un così grande poeta, in cui gli uomini vedono e riconoscono se stessi. In questa realizzazione la figura diventa indipendente, sicché nell’Inferno ci sono ancora grandi anime, e nel Purgatorio alcune anime per la dolcezza d’una poesia, d’un’opera umana, dimenticano per alcuni istanti la via della purificazione. E in conseguenza delle speciali condizioni del compimento si sé nell’aldilà, la persona umana si afferma ancor più potente, più concreta e singolare che nell’antica poesia; poiché del compimento di sé, che comprende tutta la vita trascorsa sia obiettivamente che nel ricordo, fa parte uno svolgimento storico individuale, di volta in volta una particolare storia, il cui risultato a dir vero appare a noi già «finito», ma i cui stadi in molti casi vengono rappresentati diffusamente; mai esso ci rimane del tutto celato, e noi riusciamo a cogliere, molto più esattamente di quanto la poesia antica avesse saputo fare, il divenire immanente nell’essere senza tempo (E. Auerbach, Mimesis. Il realismo nella letteratura occidentale, pp. 210-211).





4 Il fantastico 'figurale' di Calvino

Proponiamo un passaggio di Tra il cristallo e la fiamma in cui è introdotto il concetto di “figurale” a proposito del fantastico di Calvino.

Non si può certo parlare per Calvino di figurale nei termini definiti da Auerbach per il sistema dantesco, per cui la storia è figura del piano salvifico divino, sia per l’evidente assenza di una dimensione Dante incontra Farinataescatologica, sia per l’estraneità della narrativa di Calvino al livello storico. Suo interesse non è il divenire, ma le strutture invarianti che lo sottendono.
Ma chiarito questo, non si può dire che il fantastico di Calvino non abbia estratto dal figurale dantesco la peculiarità dello sviluppare in parallelo due strutture isomorfe, di cui l’una è compimento dell’altra.
Ogni narrazione non si esaurisce in se stessa ma assume sempre altri significati, è sempre una metafora, un’immagine di altro, talora sopravvenuto a lavori in corso o sovrimpresso dal lettore. Ma quando la metafora è intenzionalmente caricata della tensione morale del far fronte, ossia del conoscere e ricondurre a un senso la realtà, e il suo decorso è simmetrico a un disegno che se non è, come in Dante, il piano salvifico divino, è pur sempre ciò che da un punto di vista laico gli sta simmetrico, allora la metafora distilla qualcosa che si può avvicinare al figurale dantesco: «il mio procedimento vuole unificare la generazione spontanea delle immagini e l’intenzionalità del pensiero discorsivo. Anche quando la mossa d’apertura è dell’immaginazione visiva che fa funzionare la sua logica intrinseca, essa si trova prima o poi catturata in una rete dove ragionamento ed espressione verbale impongono anche la loro logica».[1]
Questa seconda logica è riconoscibile ad esempio nelle Cosmicomiche nel dare «evidenza narrativa a idee astratte dello spazio e del tempo» e nelle Città invisibili alle strutture invarianti che attraversano la storia dell’uomo e delle cose. C'è una doppia logica nella narrativa di Calvino e la seconda interviene a orientare lo svolazzo della prima.
Il fantastico di Calvino, anche quando è spinto sin a rasentare il surrealismo, non è mai il volo della piuma: l'associazione delle immagini è sempre guidata, in modo da essere figura di un altro piano (p. 89). Certo, è una figura articolata, complessa, depurata dalle scacchiere del linguaggio formale e dell’astrazione, che anziché ridurre la realtà in un disegno lineare la rilancia dilatata in multiformi sfaccettature, ma che estrae dalla figura dantesca l’intento di dare un senso alla Medusa, sia pur non compiuto e compatto.
Il fantastico di Calvino, come la storia per Dante, ha il suo compimento in qualcosa che gli sta sopra. Che le categorie auerbachiane serpeggino come fonte nascosta, come buco nero delle Lezioni è reso evidente da Cominciare e finire, la lezione esclusa dalle Norton dove la stella del filologo tedesco è ben luminosa.[2] Del resto i canali ispiratori della nouvelle critique sono in genere terreno fertile per le Lezioni.
Calvino ha trovato Auerbach «d’appassionante lettura»[3] sin dagli anni cinquanta e se manteneva delle riserve («ho letto l’Auerbach, con molto interesse e profitto, ma specie nelle osservazioni marginali, mentre il nocciolo principale ancora mi sfugge») non è azzardato supporre fossero relative a un rapporto ancora fluido con il realismo: un pezzo di temperamento lo tira verso il fantastico, un altro gli impone l'aderenza ai fatti della vita. Supporre che il nodo sia stato sciolto sovrascrivendo sul fantastico il reale, come Dante sovrascrive sulla storia il piano salvifico divino, non è solo suggestivo ma simmetrico alla descrizione di Calvino della genesi del suo fantastico. In ogni caso è indubbio lo zampino di Auerbach dietro l’aggettivo figurale nelle Norton.
Il termine appare la prima volta per accompagnare il salto di Cavalcanti: «una immagine figurale di leggerezza che assuma un valore emblematico».[4] È senz'altro un indizio striminzito per riconoscere una valenza auerbachiana. Figurale potrebbe essere un semplice sinonimo di visuale. Ma se si ricorda che anche nella Leggerezza un imperativo categorico apparentemente inerte innescava L’insostenibile Leggerezza dell’Essere, l’invito a drizzare le orecchie potrebbe non essere fuori luogo.
Senz’altro più circostanziata è la seconda occorrenza che, come la terza, cade proprio sul bagnato della visibilità.
«Si direbbe che Ignacio de Loyola  rivendichi per ogni cristiano la grandiosa dote visionaria di Dante e di Michelangelo - senza neppure il freno che Dante si sente in dovere di mettere alla propria immaginazione figurale di fronte alle supreme visioni celesti del Paradiso».[5]
Al cospetto di Dante, il termine non può essere casuale. Per lo meno un collegamento subliminale va messo in conto. Se per Cavalcanti era possibile eluderlo, per Dante sarebbe una deprivazione. E quando l’aggettivo dopo qualche pagina ritorna, si porta appresso inevitabilmente la valenza precedentemente evocata, tanto più che accompagna un nome (fantasia) che ha tutta l’aria d’essere sinonimo del termine qualificato in precedenza (immaginazione): «Anche leggendo il più tecnico libro scientifico o il più astratto libro di filosofia si può incontrare una frase che inaspettatamente fa da stimolo alla fantasia figurale» (p. 89).
La fantasia figurale è quella che ordina le immagini secondo un disegno che le trascende.
A questo punto è giocoforza riconoscere attorno a figurale un nodo d’idee peculiare, lontano da ogni possibile sinonimo, a cominciare da visuale che sembra essergli prossimo.
Nelle Lezioni la radice visual- compare per sedici volte in quattro occasioni contestuali diverse, senza sconfinare mai in una valenza accostabile al doppio binario di figurale. È sempre legata alla capacità di evocare immagini. Figurale e visuale sono diversamente caricati.
Se per figurale il significato non è incontrovertibile come per visuale (icastico prima e visionario poi) tuttavia non si può non riconoscere una sua specificità.
Ipotizzare un canale verso il figurale dantesco, tanto più che lo scarto è sensibile a partire da Dante, è l’unica cosa che ci sembra ragionevole, accanto all’estensione del feedback sino alla occorrenza attorno a Cavalcanti: il salto leggero di Cavalcanti sulle arche del cimitero di Santa Reparata è figura del quadro mitologico del nulla finale.
Si vede bene che l’intreccio sprigionato dal corto-circuito Leonardo-Dante è più fitto di quanto ci si possa attendere. La sua portata si spinge oltre la mera contingenza della contiguità: arriva direttamente al midollo della narrativa di Calvino, indicando come le innervazioni nell’alveo dimenticato della tradizione italiana non siano una mero blasone di facciata.
(A. Piacentini, Tra il cristallo e la fiamma, p. 375 e sgg.)


Note


[1]   I. Calvino, Lezioni americane, Garzanti, 1988, p. 90.
[2]  Si veda I. Calvino, Saggi, cit., I, p. 742 e sgg..
[3]  «Notiziario Einaudi», V, 9, Settembre 1956 p. 4.
[4]   I. Calvino, Lezioni americane, cit., p. 18.
[5]   I. Calvino, Lezioni americane, cit., p. 85.






Voci correlate


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Barthes Roland

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Propp Wladimir

Queneau Raimond

Starobinski Jean

Strutturalismo


La presente pagina fa parte di un ipertesto sulle Lezioni americane di I. Calvino e sulle Metamorfosi di Apuleio.

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